Da noi le “cose” succedevano sempre d’estate. E le nostre estati erano tutte terribilmente calde, tanto calde che le case dei piani alti diventavano fornaci da cui sfuggire durante le ore centrali del giorno. Avendone la possibilità, si andava alla ricerca di un intervallo di refrigerio al mare o in campagna, sotto le fronde dei fichi e dei noci, ma si doveva ritornare necessariamente di sera, cercando di riuscire, in qualche modo, a riposare.
Anche la mia casa era caldissima, penalizzata da un’esposizione che la vedeva abbracciare il sole già alle cinque del mattino e congedarlo la sera con l’ultimo raggio che scompariva dietro ai lecci della villa comunale di Maglie, in provincia di Lecce. L’aria condizionata era un lusso irraggiungibile, si era provato di tutto per alleviare la morsa del calore estivo, ogni tipo di ventilatore e di tenda da sole, fino a dipingere di bianco tutto il lastrico solare per favorire la rifrazione dei raggi infuocati del mezzogiorno. Spesso, alla sera tardi, si tiravano i materassi per terra, davanti alle finestre o alle porte spalancate, confidando in un refolo di brezza notturna.
Quando si è bambini si è meno insofferenti al caldo e al freddo, ci si stanca più degli adulti e il sonno non tarda ad arrivare, facilitato dalla leggerezza di pensieri elementari che non indugiano più di tanto nella mente. Eppure, certe notti di caldo afoso, neanche noi riuscivamo a dormire, complici le zanzare e l’eco dei suoni di un cinema all’aperto, non molto distante. Al mattino prestissimo, quando la temperatura esterna sembrava mitigarsi per qualche ora, era un piacere lasciare il letto, uscire sul balcone e sedersi per terra, lasciando che le gambe nude, infilate negli spazi liberi della ringhiera, penzolassero nel vuoto e nell’aria fresca.
Fu una mattina di quelle che, mentre me ne stavo in quella strana posizione, roteando le gambe e reggendomi con le mani alle sbarre di ferro, guardando verso il basso mi accorsi che, a pochi metri dal portone di ingresso della mia palazzina, era stata parcheggiata una grossa auto marrone, dalle proporzioni mai viste. In pochi attimi indossai zoccoli, pantaloncini e maglietta e scesi giù a controllare. La prima impressione fu quasi di paura, quella macchina aveva forme drammaticamente esasperate e dimensioni esagerate. Sembrava più lunga di un camion ed era tanto larga da occupare buona parte della carreggiata. All’epoca, su quella strada transitavano ancora, numerosissime, le 500, le 600 e le 850. Le famiglie più abbienti potevano permettersi le 124 e le 125, qualche rara Alfa Romeo o Lancia . La vista di quell’automezzo enorme e scintillante di mille cromature mi lasciò senza parole. Mio padre, avvertito immediatamente, si affaccio e sentenziò, senza grandi entusiasmi, che si trattava di un’americanata.
L’auto era stata parcheggiata in una zona priva di marciapiede, a ridosso del muro di cinta di un giardino, proprio per non intralciare il passaggio di altri veicoli, aveva la capote di tela e tutti i vetri abbassati. Mi colpì subito il parabrezza di cristallo verde ma, in realtà, ogni cosa che osservavo mi causava repentini stupori. L’interno non era solo a vista ma anche “a portata di mano”. Il proprietario l’aveva lasciata lì, senza alcun timore che qualcuno la danneggiasse. Accarezzai per un attimo la pelle rossa della tappezzeria e spalancai gli occhi alla vista di tappeti, anch’essi rossi, spessi come quelli che si tenevano in casa. Tutte le auto che avevo visto, prima di quella, avevano tappetini di gomma nera, dall’odore sgradevole di copertone. Immaginai che sarebbe stato bello sedersi su quei divani rossi e la tentazione di aprire lo sportello fu fortissima, ma non lo feci.
La parte posteriore era spettacolare. La coda lunghissima terminava con due fanalini rossi, a forma di occhio socchiuso, e il grande cofano del bagagliaio sembrava sollevarsi gradualmente dalla fiancata, scolpendo nella carrozzeria la forma di due ali di pipistrello. Ci volevano tanti passi, partendo dalla coda, per arrivare al frontale dove i fari anteriori erano doppi ed enormi, incorniciati da una griglia d’acciaio brillante. Ripetevano anch’essi la forma di occhi minacciosi, sovrastati da due prese d’aria che facevano da sopracciglia.
Mi accorsi che lungo i pannelli interni non vi erano manovelle. Come avevano fatto ad abbassare i vetri? Al loro posto vi erano dei larghi pulsanti di metallo lucido . Allungai il braccio e sfiorai il comando elettrico che azionò immediatamente la risalita del piccolo cristallo posteriore, facendomi fare un balzo all’indietro per lo spavento. In realtà non era la fuoriuscita del cristallo ad avermi spaventato ma il rumore del dispositivo, sommato alla colpevole consapevolezza di aver messo le mani su una proprietà non mia.
Nel frattempo, un operaio del vicino forno aveva abbandonato momentaneamente la sua cesta di friselle da imbustare e si era avvicinato anche lui a curiosare. Mezz’ora dopo, la voce che c’era una “macchina americana” vicino al forno di via Principe di Napoli si era sparsa in tutto il rione e tanti ragazzi e adulti arrivarono sul posto per ammirare quello splendore. Ognuno volle dire la sua, c’era chi citava un attore o un film, chi chiamò il fotografo per farsi immortalare a imperitura memoria (negli anni ’60 era d’uso farsi fare dei ritratti con lo sfondo di una bella auto).
Qualcuno, sbirciando il tachimetro, disse che la velocità massima “faceva schifo”, subito corretto da un giovanotto esperto che fece notare che la velocità era in miglia orarie e non in chilometri. Tutti vollero azionare gli alzacristalli elettrici per cui, per un buon lasso di tempo, i vetri verdi andarono su e giù fino a quando ognuno ebbe provato il comando e qualcuno avvertì che si rischiava di far “scaricare le pile” e di lasciare a piedi il proprietario.
Il proprietario non si vide mai, ma poi si seppe che quel misterioso conducente, proprietario non lo era mai stato. L’auto, con targa svizzera, era stata affittata da un emigrante, a Zurigo, per trascorrere le vacanze estive in Italia. Un modo per ostentare un apparente benessere ai compaesani, dopo aver subito, per lungo tempo, le sofferenze della sua condizione. Una sorta di riscatto sociale, pagato in franchi, testimoniato da uno status da esibire, anche solo per pochi giorni.
Continuò a fare caldissimo, in quei giorni di agosto. L’auto spariva a metà mattinata e rientrava nel tardo pomeriggio, e così per circa una settimana, fino a quando, una mattina, dal mio letto ascoltai un vociare sommesso giù in strada, poi gli scatti secchi di cofani e sportelli e il sibilo elettrico della grande capote che si richiudeva, sigillandosi al parabrezza. Sentii, poi, il rombo cupo e inconfondibile degli otto cilindri che si risvegliavano dal torpore della sosta. Mi affacciai mentre la grande automobile partiva con dolcezza, dondolandosi sulle quattro ruote con la fascia bianca mentre qualcuno, all’interno, salutava i parenti rimasti sul marciapiede di fronte. Non ritornò mai più.
Sul mio quaderno scrissi il nome di quell’auto: Impala, per ricordarlo per sempre. E per molto tempo, quando i miei compagni di scuola mi chiedevano quale fosse la mia auto preferita, io rispondevo “ L’Impala”, suscitando la loro ilarità nel sentire quel nome così strano. Ma loro non sapevano, non ne conoscevano neanche l’esistenza, mentre io l’avevo vista e toccata!
Lorenzo De Donno