Strano destino quello della Fiat 124, perennemente in bilico tra l’essere ricordata, da un lato, come una fra le più banali auto di ogni epoca, e dall’altro, come la esponente di una fortunata dinastia che fu protagonista (spesso assoluta) su moltissime strade del mondo; noi preferiamo ricordarla come una macchina figlia del suo tempo, dal design estremamente lineare e dalla meccanica assai tradizionale, dove però quei pochi guizzi di fantasia bastarono a donarle un posto di preminenza nel panorama automobilistico europeo. D’altronde, il felice destino cui la 124 andò incontro da protagonista sulle strade di mezzo mondo fu dovuto proprio alla bontà del progetto iniziale, in virtù del quale fu possibile farla divenire l’auto incaricata di motorizzare il blocco sovietico (e paesi ad esso collegati) e, nelle vesti della spider divenuta belva da corsa, una vettura vincente nelle competizioni su strada, cioè i rally.
La 124 era caratterizzata da linee fin troppo semplici nella sua versione originaria, tuttavia dotate di proporzioni insolite per i tempi, con un eccezionale sviluppo dell’abitacolo (e conseguente ottima abitabilità). L’ampia finestratura, gli sbalzi corti, la notevole altezza del tetto (o la bassa linea di cintura, se preferite) si discostavano dalle ultimissime tendenze dell’epoca, caratterizzate dalla sempre maggior popolarità del Coke Bottle Shape, stile reso universale dalla General Motors in America e di lì diffusosi poi per ogni dove. Anzi, la 124 era la negazione di queste linee, con fiancate di una linearità quasi esagerata, dove solo un modesto rilievo nella parte inferiore contribuiva a creare un poco di dinamismo. In altre parole, la 124 reinterpretava canoni del passato, pur con proporzioni nuove. Anche la meccanica era tutto sommato classica: la scocca portante, studiata per ridurre al minimo il peso, i quattro freni a disco, le sospensioni davanti indipendenti e dietro a ponte rigido (con uno schema che si rifaceva addirittura alla Fiat 1400!), il cambio a quattro rapporti sincronizzati e il motore ad aste e bilancieri, erano tutti elementi adatti ad offrire alla media borghesia italiana un’auto affidabile, dai costi di gestione bassi e che potesse mantenere il proprio valore a lungo nel tempo (grazie proprio all’estetica tranquilla, che faceva a meno di eventuali guizzi estetici che magari sarebbero passati troppo in fretta di moda). Apparentemente però, la 124 sembrava mancare di un tocco di audacia, soprattutto dal lato estetico, che le permettesse di avere una marcata personalità, pur conservando una certa austerità: per taluni critici, così com’era, la 124 sembrò anche troppo placida e banale. Persino Dante Giacosa nutriva dubbi sulle prospettive commerciali di un’auto che non diceva molto di nuovo.
Tuttavia, questa miscela di pragmatismo, conservatorismo e pacata audacia tecnica ed estetica alla fine pagò, dato che la 124 fu auto dal notevole successo sui mercati italiano ed europeo, guadagnandosi pure il titolo di Auto Dell’Anno per il 1966 (primo di una lunga serie di tali trofei per il marchio torinese). Anzi, la 124 divenne probabilmente la Fiat più riconoscibile fra tutte, più ancora di autentiche icone come la 500, la 600 o la Panda, in virtù della sua inarrestabile diffusione in una miriade di paesi, non ultimi la Spagna e l’Argentina: ad ogni modo, buona parte del merito di questa diffusione spetta alle 124 di costruzione sovietica, cioè le Lada. Grazie soprattutto a queste, e al loro ruolo per la diffusione del motorismo oltrecortina, la berlina torinese è senz’altro un’autentica icona dell’automobile mondiale. Evidentemente, il pubblico, e non solo quello italiano, trovò nella 124 un’auto verso la quale manifestare senza problemi la propria fiducia, un’auto onesta e sincera, e proprio per questo degna di attenzione e rispetto.
Come da tradizione, alla berlina furono affiancate alcune versioni derivate: la wagon, la coupé e la spider. La prima era chiaramente derivata dalla tre volumi di serie, conservando buona parte della configurazione di base: tuttavia, l’aggiunta del terzo finestrino laterale e del portellone erano state eseguite molto bene, in ossequio al riuscito canone introdotto con le precedenti 1300/1500 giardinette. L’inclinazione in avanti del portellone, dovuta al finestrino laterale sagomato a parallelogramma, era molto accentuata, e donava una certa verve a quella che per i canoni dell’epoca doveva sostanzialmente essere un’auto per usi promiscui, capace di adattarsi molto bene a molteplici ruoli, ma non necessariamente a quello di essere auto alla moda dotata di un’immagine assai elegante: nel caso della 124 familiare, si può invece dire che si era raggiunto lo scopo di conferirle una spiccata personalità, adatta anche al ruolo di auto à la page, una personalità più dinamica di quella fin troppo austera della tre volumi, senza stravolgere il progetto iniziale.
Le versioni sportive della gamma erano invece ben diverse dalla 124 a quattro porte, non conservando nulla di questa, e anche se pure in queste l’abitacolo aveva grande preminenza, il lavoro dei designer aveva fatto si che fosse obiettivamente difficile intuire al volo da che auto derivavano, anche se un importante indizio aiutava l’osservatore in tale esercizio: infatti, pur essendo sia la spider che la coupé tutte nuove, in entrambe risaltava l’ampio spazio lasciato all’abitacolo, cosa che dunque le accomunava immediatamente alla berlina di base.
Fiat 124 C4, una perla in Veneto
Ad ogni modo, c’è un’altra interessante derivata della 124 che rivela la propria natura al volo, senza necessità di indugiare ad interpretare i concetti stilistici o le proporzioni di base eventualmente celati nella sua linea. È questa una macchina dall’alto contenuto storico, tanto da essere attualmente un pregiato oggetto da collezione visibile presso il Museo Bonfanti-Vimar di Bassano del Grappa, nome caro agli appassionati per la qualità delle vetture che in più di un quarto di secolo di attività sono state esibite.
La storia di questa auto, e l’importanza che ha avuto come testimonianza finale dell’abilità e dell’inventiva che contraddistinsero l’azienda creatrice, sono motivi più che sufficienti a giustificarne la presenza nell’ambito della prestigiosa istituzione vicentina. Questa gemma è la cabriolet a cinque posti realizzata dalla Carrozzeria Touring nel 1966 sulla base della allora neonata berlina Fiat, una macchina tanto pregevole quanto inaspettata, dove i tratti più salienti della personalità della 124 vennero mantenuti, pur con l’introduzione di nuovi stuzzicanti dettagli.
A differenza delle sorelle coupé e spider, e contrariamente a quasi tutte le altre derivate realizzate da carrozzieri esterni, la 124 C4 (denominazione ufficiale, dove la C stava per Cabriolet e 4 indicava i posti previsti) di Touring manteneva infatti il frontale, la coda e persino lunghezza e larghezza della berlina di origine, unendoli però ad una sezione centrale che pur conservandone gli elementi base ne differiva molto.
Senza modificare il parafiamma o il cruscotto, vennero infatti inseriti un parabrezza dalla forte inclinazione e vennero adottate due portiere singole, allungate e sagomate a trapezio, in luogo degli elementi originari.
Queste modeste trasformazioni, alle quali va aggiunta la particolarissima sagomatura dei cristalli laterali dallo spiccato profilo trapezoidale (i quali, unitamente ad una agile capote in tela, aiutavano la macchina ad assumere linee basse e sportive anche da chiusa, consentirono alla creazione della Touring di spiccare nel panorama automobilistico italiano ed europeo.
Era infatti l’unica cabriolet prevista per cinque passeggeri nella sua categoria (nonostante il nome lasciasse intendere una semplice quattro posti), e una delle poche che pur conservando molti aspetti della berlina, era anche piacevolmente diversa, dotata di una potente personalità propria, con un’eleganza e un dinamismo molto superiori alla quattro porte.
A questa contribuiva anche il fatto che, grazie ad una ingegnerizzazione assai approfondita, era stato possibile abbassare quasi del tutto la sporgenza della capote quando questa veniva ripiegata, risultando dunque a filo del bagagliaio: la discreta copertura, dotata dello stesso colore biscotto che caratterizzava il resto della tappezzeria, quasi non si notava, e contribuiva a trasmettere, in chi osservava il profilo della macchina da aperta, di una eccezionale pulizia di linee, un armonioso insieme di tratti che, pur conservando una certa somiglianza di base con la berlina, guadagnava moltissimo in autorevolezza ed eleganza. In altre parole, la 124 C4, con poco, era dotata di quelle peculiarità estetiche sovente associate ad auto di ben più elevata caratura e lignaggio, celando le umili origini sotto abiti davvero signorili e di classe. In parole povere, la 124 era divenuta una vera glamour queen.
Anche il tetto rigido in metallo, dalle linee svelte e leggere assai vicine a quelle della capote in tela e previsto come opzione sin dall’inizio del progetto, aiutava a dare nobili linee da gran turismo a quella che era, in sostanza, una 1200 da 60 cavalli, e che oltre al motore aveva conservato della berlina di serie anche il resto della meccanica di base, sospensioni incluse, senza pertanto offrire inedite sensazioni velocistiche. Anzi, anche se la C4 aveva conservato le dimensioni fuoritutto della berlina, aveva guadagnato non poco peso, a causa delle modifiche attuate per irrobustirne la scocca: la velocità massima della berlina, stando a Quattroruote, era di circa 146 kilometri orari, ed è probabile che la C4 fosse capace di simili punte, dato che il sensibile aumento di peso era forse mitigato dalla migliore aerodinamica, almeno a capote chiusa.
Il genio della carrozzeria Touring
Era, per dirla con gli americani, una perfetta incarnazione del concetto di boulevard cruiser, un’auto adatta a rapide gite in riviera, a capote aperta, che però rinunciava ad eccessive pretese sportive.
Tuttavia, appare ancora oggi evidente, specie se si ha la fortuna di osservarla a lungo dal vivo, che ciò che la 124 C4 non possedeva in termini di sportività era stato magnificamente compensato dall’inaspettata eleganza che ne contraddistingueva l’aspetto esterno. Infatti, come anticipato dal titolo, questa specialissima versione della 124, pur conservando molto della spigolosità di base della berlina, grazie alle cure degli uomini della Touring riesce a rivelarsi piacevolmente sofisticata, preziosa anche, proprio come un cofanetto portagioie, dalle linee compatte ed essenziali ma pure raffinate ed eleganti.
Anche gli interni riflettevano la particolare personalità dell’auto, piacevolmente a metà fra l’essere austera e nel contempo così sbarazzina e vivace: il cruscotto era infatti quello della 124 di serie, così come il volante, ma vi era una significativa distinzione in termini di strumentazione, che era composta da cinque elementi circolari incorniciati in un pannello di radica: grazie a questi, pur se inserita nell’alloggiamento di serie, si distingueva positivamente da quella a sviluppo lineare della berlina di serie.
Anche il look del resto dell’abitacolo si rifaceva alla configurazione di base, senza stravolgerne l’essenza, e la cosa era tanto più apprezzabile in quanto si era cercato di rimanere il più possibile prossimi alle volumetrie che rendevano l’interno della 124 berlina uno dei più spaziosi della categoria: conservare buona parte delle misure interne di abitabilità accresceva l’appeal della cabriolet Touring, e va detto che effettivamente dietro c’è spazio per tre persone, anche se con qualche scomodità per le gambe.
Certi tocchi, come le luci di cortesia inserite nei rigonfiamenti necessari per l’alloggiamento della capote o la presenza di due maniglie d’apertura delle porte, una per i passeggeri anteriori e una anche per quelli dietro rivelavano anche una cura del dettaglio che sicuramente si sarebbe potuta apprezzare appieno nel caso di una vettura definitiva, appena uscita dalla catena di montaggio.
Le finiture dell’unico esemplare di 124 C4 esistente sono infatti perfettibili, come peraltro ci si aspetterebbe da un prototipo: sono però sufficienti a dare un’idea del connubio fra raffinatezza e semplicità, fra buonsenso e buongusto, che contraddistinse questo progetto sin dalla gestazione.
Ulteriori particolari quali le capaci tasche ricavate nei fianchetti del pavimento, davanti alle porte, rivelavano l’intenzione dei costruttori di offrire un prodotto adatto ad un uso quotidiano, e in questo senso anche i rivestimenti color biscotto, nobilitati dall’uso di pratiche superfici traforate sui sedili, davano un sensibile contributo.
Infine, va detto che l’aver mantenuto inalterati il muso e la coda, dove le maggiori differenze consistevano nella discreta adozione dei loghi identificativi del modello (dietro la grafia era identica a quella del logo di serie) avrebbe aiutato nella eventuale vita di tutti i giorni.
L’accessibilità alla meccanica rimaneva naturalmente identica a quella già ottima della berlina, e dietro si poteva contare sull’ampio bagagliaio standard, dove anche la collocazione a latere della ruota di scorta era stata mutuata pari pari dalla berlina.
Si può dire che, a tutti gli effetti, questa Fiat era comparabile ad altre nobili convertibili di quell’epoca che, pur di una categoria superiore, ne condividevano la derivazione da una berlina di grande diffusione, della quale avevano a loro volta conservato la fisionomia di muso e coda, e della quale avevano rielaborato la parte centrale senza rivoluzioni ma anche senza rinunciare al sapiente uso di elementi inediti: queste macchine erano la splendida Lancia Flavia Cabriolet di Vignale e la Citroen DS Cabriolet. D’altro canto, la superba cabriolet della Lancia era probabilmente l’auto a cui maggiormente si ispirarono i tecnici Touring al momento di realizzare la trasformazione della 124: pur essendo più radicale, la creazione di Vignale era la concorrente più vicina per filosofia, dimensioni e logica costruttiva.
Quasi a confermare che la 124 cabriolet si inseriva in una categoria dove a spiccare era non per caso la leggenda francese, fu proprio la filiale transalpina della Fiat a manifestare l’interesse maggiore verso la scoperta Touring, ritenendo possibile la vendita di nientemeno che diecimila esemplari. Purtroppo, la Fiat aveva già deciso che la spider realizzata da Pininfarina avrebbe avuto una corsia preferenziale anche in sede commerciale, e la versione convertibile a quattro/cinque posti venne lasciata allo stadio di prototipo.
Ad ogni modo, il destino della 124 Cabrio apparve incerto sin dal primo momento, e questo soprattutto perché non si trattò dell’iniziativa di un’industria in salute come la Bertone, la O.S.I. o la stessa Pininfarina (che, in linea strettamente teorica, avrebbero potuto sostenerne senza eccessivi problemi la produzione e commercializzazione, magari facendo qualche pressione alla direzione Fiat), ma bensì dell’ultimo tentativo effettuato dalla Touring per rimanere in attività.
Se stupisce, ma fino ad un certo punto, constatare che anche un’azienda di grandi tradizioni e dimensioni come la Touring si trovò invischiata a metà degli anni Sessanta in quel tipo di guai che affliggeva (o aveva già afflitto) molte di quelle firme che solo dieci anni prima parevano piene di vitalità e di iniziative, stupisce ancor di più apprendere che non molto prima dell’operazione 124, la Touring era un’azienda prospera.
Allora, come aveva fatto a venire investita da una crisi tale da portarla ai limiti della bancarotta? Un piccolo excursus, in questo senso, è necessario.
Attiva dal 1926, l’azienda fondata da Felice Bianchi Anderloni, fin dagli inizi ebbe un rapporto privilegiato con alcuni dei più bei nomi dell’auto italiana, cioè Isotta Fraschini, Alfa Romeo e Bianchi. Dopo aver utilizzato intensamente il metodo Weymann per molti propri modelli, nel 1935 l’azienda introdusse quel particolarissimo metodo di costruzione delle scocche per la quale divenne famosa nel mondo, costituito da un reticolo di sottili tubi e profilati di acciaio, un vero e proprio scheletro interno che a sua volta sorreggeva i pannelli in alluminio che costituivano la carrozzeria. Questo sistema, contraddistinto dal peso ridotto, portò all’adozione del termine Superleggera, che divenne vero e proprio sinonimo di Touring. Presto questo sistema divenne leggendario, e unitamente ad una ricerca aerodinamica non di poco conto, fu la base su cui vennero creati decine di capolavori, tutti fedeli al motto “Il peso è il nemico, la resistenza all’aria l’ostacolo” che sempre più spesso accompagnava pubblicità e comunicati stampa della fabbrica: Alfa Romeo, Fiat, Lancia, naturalmente, senza dimenticare l’importanza che ebbe la Touring (e in particolare, un suo particolare stile di carrozzeria, la “barchetta”) nella crescita e affermazione della leggenda Ferrari.
Come peraltro la seconda metà degli anni Trenta, gli ultimi anni Quaranta e tutti gli anni Cinquanta furono un periodo felice e prolifico: oltre alla continua collaborazione con l’Alfa Romeo (si pensi alla 6C 2500 Villa D’Este o alle 1900 Sprint e Super Sprint), la Touring fu importante anche per la definitiva affermazione del marchio Maserati fra le granturismo stradali e per la nascita dei primi modelli Lamborghini, mentre la grande crescita del mercato automobilistico italiano significò l’affidamento di importanti commesse anche da parte della Lancia, con la Flaminia GT. La collaborazione con l’Alfa continuò anche con le 2000/2600, delle quali la Touring realizzò la versione spider.
Oltre a queste leggende tricolori, anche celebri marchi stranieri si avvalsero del know-how Touring: non vanno pertanto dimenticati i frutti del riuscito connubio con la BMW, che tanto contribuirono al prestigio sportivo della casa bavarese, oppure quelli creati insieme alla spagnola Pegaso, o ancora la estroversa Hudson Italia prodotta per conto dell’azienda americana e che, nonostante fosse stata ufficialmente disegnata in toto dal designer della casa madre Frank Spring, denunciava molti particolari formali prossimi a quanto visto su alcune Pegaso o sul Disco Volante dell’Alfa.
Ma di quel periodo numerose furono anche le testimonianze di una fattiva collaborazione fra la Touring e alcune famose Case britanniche: sono queste la Frazer Nash e, soprattutto, la Bristol, che acquisì la licenza per costruirsi in casa le carrozzerie con il metodo Superleggera.
Anche altri rappresentanti del motorismo britannico rimasero colpiti da questo processo costruttivo così brillante e vincente, tanto da imitare l’esempio Bristol pur di utilizzarlo per la propria costruzione in serie: stiamo qui parlando nientemeno che della Aston Martin.
I buoni uffici della Carrozzeria Touring presso l’industria britannica dell’automobile crearono le premesse per un accordo di ben maggiore portata, dalle conseguenze assai significative per il futuro dell’azienda milanese: questa volta, protagonista fu la Rootes, gruppo che comprendeva alcuni dei più gloriosi marchi inglesi, quali Hillman, Humber, Sunbeam e Singer. Sulla carta sembrava un ottimo accordo: uno dei principali gruppi automobilistici d’Inghilterra si accasava con un partner italiano di caratura per poter avere successo anche da noi, scavalcando le tariffe e i dazi che all’epoca penalizzavano i prodotti britannici. D’altronde, erano quelli gli anni dell’accordo fra BMC e Innocenti, e tutto faceva presagire alla nuova joint-venture un radioso avvenire in tutto e per tutto simile a quello cui i costruttori della Mini e della Lambretta stavano vivendo: a tale riguardo, la Touring accelerò ulteriormente la costruzione del nuovo stabilimento di Nova Milanese, già avviato, ma che ricevette decisivo impulso dalla necessità di presentarsi agli inglesi con una fabbrica adeguata alle nuove stime di produzione prospettate dall’accordo. Questo prevedeva l’assemblaggio in Italia della Sunbeam Alpine (in una versione lievemente modificata), della Hillman Super Minx (fresca vincitrice di un concorso per il taxi europeo ideale) ed ebbe, come sbocco di una logica compartecipazione stilistica e progettuale, la Sunbeam Venezia.
Purtroppo, la improvvisa morte di Lord Rootes, gran capo del gruppo stesso e uno fra i principali sponsor inglesi di questa joint-venture, le qualità non eccelse della Super Minx e l’errato posizionamento sul mercato della Venezia (dal prezzo eccessivo per un’auto di quel genere) minarono il successo dell’intesa: un improvviso sciopero alla Touring e il desiderio da parte della Chrysler Corporation (principale partner societaria della Rootes e presto sua padrona assoluta) di uscire dall’accordo troncando i programmi in essere non fecero che peggiorare la situazione. Vero che il disimpegno della Rootes, causato anche dal desiderio della Chrysler di mettere ordine nelle esangui finanze del gruppo, provocò un gravissimo danno alla Touring, ma vero anche che la situazione commerciale delle auto da essa prodotte si era in parte deteriorata, con una riduzione degli ordinativi da parte di quelle case italiane che avevano affidato alla Touring, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, significative commesse produttive.
A causa di questi fattori, tanto repentini quanto inaspettati, la Touring si trovò a navigare in cattive acque.
Già nel marzo 1964 la situazione dell’azienda era peggiorata ad un punto tale da dover ricorrere all’amministrazione controllata, seguita nel giro di un anno dal concordato preventivo.
Pochi avrebbero pensato, solo un lustro prima, ad una così repentina crisi: episodi quali l’appalto per la produzione della Giulia GTC (in realtà basata sulla ben nota coupé disegnata da Giugiaro per conto di Bertone) o l’aiuto dato all’Autobianchi e a Luigi Fabio Rapi nella realizzazione della primula Coupé, o quello dato alla Lamborghini stessa per la 350 GT furono solo palliativi.
In una situazione del genere, disperatamente alla ricerca di una commessa capace di risollevare l’azienda, soprattutto sotto il profilo finanziario ed industriale, i vertici, primi fra tutti il patron Carlo Felice Bianchi Anderloni e il suo braccio destro, l’ingegner Aldo Rizzi, cercarono contatti per poter produrre una derivata da un’auto di grande serie dell’epoca. Fra le varie, la Fiat 124 sembrò essere la più promettente: una sobria berlina da famiglia di fascia media che poteva fungere da ottima base per una versione quasi fuoriserie, ben più sbarazzina e disinibita della vettura di serie, pur senza stravolgimenti nei tratti base, e, di conseguenza, senza risultare troppo complessa da produrre.
La fine di un’eccellenza italiana
Il risultato finale, cioè la 124 C4, rispettava in toto questi obiettivi, e l’attento studio dei costi di produzione ne faceva un progetto davvero maturo e promettente. Purtroppo, le attese di Anderloni, di Rizzi e di tutti quelli che ci lavorarono sopra andarono deluse, e la C4 rimase un magnifico esemplare unico. Purtroppo, come detto, la crisi inarrestabile della Touring giunse alla sua mesta conclusione nel giro di poco tempo, e quella che era stata una delle più fulgide realtà produttive nel suo campo venne consegnata ai libri di storia. All’epoca, pochi avrebbero però immaginato che nel 2006 la Touring sarebbe tornata in attività, pronta nuovamente a sfornare apprezzati capolavori ricchi di quel buon gusto e di quella raffinatezza che avevano caratterizzato molte delle realizzazioni contraddistinte dal marchio Superleggera. Ad ogni modo, la rinascita della Touring, pur se apprezzabile e davvero lodevole, fa storia a se: per gli appassionati di belle auto, l’avventura delle Touring originarie termina proprio con la 124 C4.
L’ingegner Aldo Rizzi,che fu dunque uno dei suoi principali artefici, ne è anche l’attuale proprietario, ed è grazie a lui e alle sue cure se l’auto è ancora fra noi. Infatti, la storia dell’auto nasce nello stesso giorno in cui la 124 vera e propria fu presentata al pubblico, il 10 giugno 1966: Rizzi andò a Torino a ritirare una berlina, l’esemplare n. 44 costruito, su cui basare la trasformazione, che fu pronta nel giro di qualche mese, in tempo per il Salone di Torino di novembre, durante il quale fu esposta assieme alla Lamborghini Flying Star II, altra auto che può fregiarsi del titolo di ultima auto della Touring originaria.
La trasformazione da parte della carrozzeria nota per la costruzione Superleggera vide l’adozione di un’insolita ma efficace soluzione per ovviare alla prevista riduzione nella resistenza torsionale della scocca priva di tetto: una specie di doppio fondo metallico fissato sul pianale, una scatola destinata ad irrigidire l’insieme. Questa cosa funzionò benissimo: subito dopo il Salone, i tecnici della Touring lasciarono la loro creazione nelle mani dei colleghi Fiat, che nell’arco di tre mesi la brutalizzarono, totalizzando 30.000 chilometri di serrati ed estenuanti collaudi, durante i quali la C4 dimostrò la propria robustezza e la bontà realizzativa della conversione. Purtroppo, in Fiat si era deciso di supportare la spider di Pininfarina, e di non procedere oltre con la pur lodevole proposta Touring. Forse, più ancora dei guai della Touring e della sua eventuale incapacità ad onorare la commessa,a Torino si temeva che le auto scoperte avessero un futuro solo se dotate di abiti decisamente sportivi, certo più di quelli della C4, concettualmente legati ad una romantica visione dell’automobile forse ormai demodé per l’epoca. Sia quel che sia, la filiale francese dimostrò invece vivo apprezzamento per il concetto di questa 124, e le stime dell’epoca parlano di un possibile prezzo d’acquisto di 1.400.000 lire, a fronte di una produzione programmata di 5000 unità annue: una cifra tutto sommato equa; tuttavia, come detto, ciò non bastò a salvare il progetto, del quale non se ne fece più nulla. O meglio, l’auto, dopo gli estenuanti collaudi, venne restituita alla Touring, e anche se ben altri erano i problemi a cui pensare all’epoca, non fece la fine di molti prototipi che dopo la ribalta dei saloni erano state abbandonate e ridotte a rottami.
La 124 C4 trovò il proprio salvatore proprio nell’ingegner Rizzi, che nel ’68 ne divenne il proprietario e la immatricolò. La macchina era entrata in suo possesso anche perché, in sostanza, costituiva una sorta di saldo per il suo lavoro alla Touring, e venne adoperata per molti anni come valida seconda macchina di famiglia, venendo alle volte adoperata anche per trainare una roulotte.
Pur con il passare delle mode e del tempo, rimase senza dubbio un’auto assai originale e di sicuro effetto; anche un buon amico della famiglia Rizzi, Monsignor Aristide Pirovano, vescovo missionario, ne era rimasto colpito, al punto da divenirne egli pure un utilizzatore saltuario per certe occasioni, come quella volta che la chiese per portare un suo amico a Roma: questi era nientemeno che l’allora vescovo di Cracovia, al secolo Karol Wojtyla! Proprio così: la 124 C4 ebbe l’onore di venire utilizzata per trasportare il futuro Papa Giovanni Paolo II, tanto che può essere considerata a pieno titolo una papamobile, seppure ad honorem!
Col passare del tempo, e nonostante una carriera tutto sommato tranquilla (e potendo vantare anche episodi davvero significativi, come il summenzionato viaggio a Roma con a bordo il futuro Papa), anche per la 124 C4 arrivarono i tipici acciacchi della vecchiaia, cosa acuita oltretutto dai mesi trascorsi a subire le torture dei collaudatori Fiat. Così, nella seconda metà degli anni Ottanta la vettura venne sottoposta ad un meritato restauro, teso anche a rimarginare non solo i guasti del tempo ma anche le ferite rimaste da quei tre mesi di durissimi test: non per nulla, Rizzi si era rivolto agli uomini con i quali ne aveva condiviso la nascita, e il risultato di questo lavoro di ripristino (all’epoca ultimato giusto in tempo per partecipare ad uno dei primi incontri di automobili costruite dalla Touring) è a tutt’oggi assai apprezzabile.
Attualmente, è possibile ammirare la 124 C4 in una delle due sale del Museo Bonfanti-Vimar, inaspettata visione che accoglie chi si rechi a Bassano a visitare uno dei più significativi templi per l’auto d’epoca oggi attivi in Italia. Visione inaspettata ma anche assai gradita, in buona compagnia fra gli altri mezzi esposti al Museo, dedicato per lo più alla storia e alle vicissitudini del motorismo d’annata in terra veneta; come compagni d’avventura, la 124 C4 può attualmente vantare un magnifico Fiat 15 Ter, il camion fuoristrada ribattezzato Pigafetta e una Jeep Jeepster Commando dal look decisamente di serie, entrambi accomunati dal fatto di essere stati usato da quella leggendaria figura di fotografo ed esploratore che è Cesare Gerolimetto per imprese ai limiti dell’epico: in ossequio al nome, il Pigafetta ha fatto il giro del mondo, letteralmente, mentre la Jeepster si “accontentò” di affrontare il periplo dell’Africa, cosa comunque da far strabuzzare gli occhi se si pensa che lo fece senza ricorrere a chissà quali preparazioni specifiche da raid dell’avventura. D’altronde, anche le altre ospiti, che annoverano note auto da rally, non sono da meno in fatto di resistenza e avventure affrontate: in questo, grazie a quei 30.000 chilometri percorsi tutti d’un fiato e senza pietà, la 124 C4 denota d’essere senza dubbio degna compagna di quei mezzi e di quelle auto che possono tutte vantare una esistenza fatta di estenuanti corse e sforzi d’inaudita potenza.
Comunque, prove di collaudo a parte, la 124 C4 colpisce con il suo fascino e la sua aria da oggetto così inconsueto e carismatico eppure così familiare e noto, quasi una vecchia amica che avesse deciso di compiere, almeno una volta nella vita, una pazzia a cuor sereno. Chi l’avrebbe mai detto che la cara, vecchia 124 sarebbe stata in grado di diventare una così bella signora, grazie a semplici ma assai efficaci colpi di matita che, come ceselli, ne hanno modificato le sembianze senza stravolgerne i lineamenti?
Questo rivela un temperamento ed una sensibilità da scultori, da artisti, più che da progettisti o tecnici: un’ulteriore ed inaspettata testimonianza della bravura e della bontà realizzativa degli uomini della Touring, che anche in quei giorni tempestosi in cui non sapevano se fossero andati a lavorare il giorno successivo, con la propria costanza e dedizione contribuirono a realizzare un capolavoro. Capolavoro, si, senza se e senza ma: fortunatamente, grazie ad Aldo Rizzi e al Museo Bonfanti, chiunque può comprendere questo concetto di persona, dando un’occhiata rivelatrice alla 124 C4 che, ancor oggi, fa gridare allo scandalo per il fatto che non le si sia data la possibilità di diventare auto di serie. Fra le molte incompiute della Fiat, questa è forse una delle più significative, certo una di quelle che maggiormente colpisce i cuori, sicuramente una di quelle che lasciano maggiormente amaro in bocca per il destino suo e di chi la creò.
Matteo Giacon