Il giorno in cui ci siamo conosciute ero una bimba mingherlina. Lei, un formoso gigante. E nemmeno rassicurante, a un primo sguardo. Quei fanaloni a mandorla ti fissavano sornioni, ruotando – roba mai vista prima – a seconda di come papà girava il volante. E mica partiva a comando! I tempi li dettava lei. Girata la chiave, si sollevava sbuffando, prima dietro e poi davanti, indolente come un felino. Mancava soltanto si stiracchiasse, e sarei scappata a gambe levate.
Era il 1970, avevo 10 anni e molta passione per le auto. Ma ho diffidato per parecchi giorni, da quel macchinone francese che mio padre, affascinato dalla sua meccanica all’avanguardia e fiero di essersela portata a casa, mi aveva detto chiamarsi Citroen Ds 21 Pallas. Una macchina diversa da tutte le altre. Mica perchè più bella o più potente. No no, era questione di personalità.
Quell’auto di color beige e dagli interni rossi e grigi, aveva cervello e anima. Metteva soggezione. Mi faceva venire in mente Maria Callas, che mia nonna adorava e di cui diceva sempre: «Non è una bellezza classica. Anzi, non si può nemmeno dire bella. Ma se vedi quel viso una volta, non lo dimentichi più».
La Ds era così: una donna – pardon, un’auto – inarrivabile ai sempliciotti. I quali, atterriti da quell’inconsueto mix di sofisticate linee tonde e silhouette filante, avevano osato soprannominarla “ferro da stiro”. Stolti.
Che avesse fianchi impegnativi, mio padre in effetti non si stancava di ripeterlo: «Se tagli un angolo, ci hai rimesso in automatico metà fiancata». Trattenevo il fiato a ogni curva secca. Ma tra lei e mio papà era stato subito amore: non ci fu mai un’incomprensione. A differenza delle solite auto, inoltre, la Ds pareva un salotto viaggiante. Spalancavi una delle sue quattro porte – pesantissime, nei miei ricordi di bambina – ed era come accomodarsi nel palco in miniatura di un teatro.
Merito delle luci di cortesia, più simili a scintillanti appliques, e di tutto quel rosso dell’abitacolo. Rosso il velluto dei sedili, rosso lo strato di moquette sotto i piedi. Ecco, la moquette della Ds era l’unico cruccio: talmente spessa e morbida, che mi negava il divertimento di far suonare le fibbie metalliche dei miei mocassini, battendo il tempo sulla musica a imitazione di un batterista. È stato il solo rimbrotto che ho mosso a quella macchina.
Nei tanti anni che ha vissuto in famiglia, ci ha portato sempre a destinazione, ovunque. Ha affrontato nebbia e neve, pioggia e ghiaccio, ha preso traghetti e patito caldo tropicale. La notte del 6 maggio 1976 è stata anche il nostro rifugio d’emergenza, unica “casa” sicura in mezzo a quella spaventosa novità del terremoto in Friuli. Non ci ha mai traditi. Traditore si è sentito mio padre, quando, ormai sfinita dall’età, ha deciso di consegnare la Ds alla storia. Non è stato affatto indolore. Lo provano le tante foto di momenti spensierati, dove i suoi fanaloni ammiccano e sorridono assieme a noi, la sua famiglia.
Una Dea! Qui si volava in auto,,,un cesto di uova e non se ne rompeva una!!